Di confini si muore

Lo scorso 24 giugno almeno 37 persone sono state uccise dalle forze di polizia marocchine e spagnole mentre tentavano di oltrepassare la recinzione che circonda la città di Melilla, l’enclave spagnola situata sulla costa orientale del Marocco.
Secondo le ricostruzioni ufficiali, quel giorno circa 2000 persone si sarebbero dirette dalla città di Nador (Marocco) verso il confine con Melilla. Di queste, almeno 1500 sarebbero arrivate fino alla recinzione e circa un terzo avrebbe tentato di sfondare un cancello. Sono così intervenuti i poliziotti spagnoli e marocchini che – come dimostrato da foto, video e testimonianze dei sopravvissuti – hanno represso con estrema violenza questo tentativo di ingresso in massa a Melilla, causando la morte di 37 persone e il ferimento di decine di altre, lasciate ad agonizzare per ore sotto lo sguardo delle autorità di entrambi i Paesi, come denunciato dall’ONG Caminando Fronteras.
Secondo le ONG locali, le forze di sicurezza avrebbero fatto sparire i cadaveri in fosse comuni, prima che venissero aperte indagini o che venissero perlomeno svolte autopsie o identificazioni delle vittime.

I rapporti tra Marocco e Spagna
I primi commenti del premier spagnolo Pedro Sánchez sono stati di apprezzamento per la gendarmeria marocchina, per il loro aiuto alle forze d’ordine spagnole nel “respingere questo assalto violento” in difesa dei confini spagnoli. Tali affermazioni hanno immediatamente sollevato aspre critiche da parte dell’opinione pubblica spagnola e internazionale, motivo per cui Sánchez ha affermato di non esser stato a conoscenza dei resoconti e delle immagini al momento delle iniziali dichiarazioni, tenendo tuttavia a sottolineare che i reali responsabili delle stragi sono i trafficanti di esseri umani.

Sara Prestianni, di EuroMed Rights, intervistata da Le Monde sui fatti di Melilla, ha affermato che quanto avvenuto il 24 giugno non è che il risultato di mesi di tensioni causati dagli accordi tra Marocco e Spagna conclusi nell’aprile di quest’anno e volti a rafforzare la cooperazione tra i due Paesi nella gestione delle migrazioni, mettendo fine a una lunga crisi diplomatica relativa al conflitto nel Sahara Occidentale.

Nell’aprile 2021 il leader del Fronte Polisario, Brahim Ghali fu ricoverato in un ospedale spagnolo a seguito del contagio da covid-19, scatenando una immediata reazione da parte del re Mohamed VI. A metà maggio furono infatti sospesi per 48 ore i controlli di frontiera a Ceuta con il conseguente ingresso nel territorio spagnolo di circa 8000 persone migranti. Sánchez decise quindi di cedere alle richieste del re marocchino, riconoscendo la legittimità dell’occupazione marocchina del Sahara Occidentale, ottenendo così un nuovo accordo di cooperazione in materia di gestione della questione migratoria e intensificando la collaborazione al fine di frenare gli arrivi e facilitare i rimpatri.

La citata ONG Caminando Fronteras, sul suo sito web, ha affermato che tali accordi avrebbero causato un inasprimento delle già gravi condizioni di vita delle persone migranti a Nador, alle quali viene negato da mesi l’accesso alle cure mediche, oltre a subire continue distruzioni degli accampamenti e danneggiamenti o confische delle scorte di cibo e acqua.

L’esternalizzazione delle frontiere
Quanto avvenuto lo scorso 24 giugno a Melilla non è altro che l’ennesima dimostrazione della crisi delle politiche migratorie europee, sempre più tese ad una criminalizzazione delle migrazioni e all’esternalizzazione delle frontiere. Quest’ultima consiste nella conclusione di accordi con paesi terzi finalizzati a delegare il controllo e la gestione dei flussi migratori.

Bisogna tuttavia rilevare come tale fenomeno sia relativamente recente, come d’altronde l’esistenza stessa di una politica comune europea in materia migratoria. Infatti questa nasce con una serie di piccoli interventi a partire dal Trattato di Roma del 1957, ma sono certamente gli accordi Schengen, entrati in vigore nel 1995, che segnano l’inizio di una volontà comune di rafforzare i controlli alle frontiere esterne dello spazio Schengen. Negli anni le politiche europee in materia si sono sempre più focalizzate sul contrasto all’immigrazione irregolare, in particolare a seguito delle c.d. “primavere arabe” del 2011 e la conseguente ansia per la “minaccia” di temuti esodi di massa. Il fallimento degli interventi interni allo spazio europeo hanno portato alla scelta di dare primario rilievo alle politiche di esternalizzazione, finalizzate a prevenire o fermare gli arrivi in Europa.
Questa scelta presenta una serie di criticità.
Innanzitutto, come evidenziato dalla prof.ssa Alessandra Algostino dell’Università di Torino si è assistito ad un preoccupante crescente passaggio dall’ hard law alla c.d. soft law nella conclusione di questo genere di accordi. Grazie alla forma meno rigorosa caratteristica degli strumenti di soft law, il potere esecutivo può eludere le rigide procedure di conclusione di trattati internazionali, sfruttandone la forma giuridicamente non vincolante e l’assenza di requisiti di trasparenza e pubblicità (richiesti invece per l’hard law), sfuggendo così ai possibili controlli da parte del potere legislativo o dell’opinione pubblica. In tal modo si produce, nei fatti, una quasi impossibile contestazione di accordi potenzialmente lesivi di diritti fondamentali.

Peraltro, accade di frequente che non vengano previsti meccanismi efficienti di controllo del rispetto dei diritti fondamentali delle persone migranti durante la fase di implementazione degli accordi. Questo dato è ancora più rilevante considerando che molti dei paesi terzi contraenti non sono firmatari delle più importanti carte in difesa dei diritti umani ed in particolare del diritto di asilo.

Queste mancanze rendono evidenti le criticità legate ad accordi con paesi di transito come la Libia, dove la gestione dei flussi migratori è per lo più in mano ad organizzazioni paramilitari e trafficanti di esseri umani. Le persone migranti si ritrovano quindi in molti casi vittime di gravi violazioni dei loro diritti senza alcuna speranza di trovare riparo in Europa, diventata ormai una fortezza impenetrabile.

Eppure è lecito domandarsi se non sia proprio questa la finalità dell’esternalizzazione delle frontiere.
In passato infatti alcuni paesi europei sono stati condannati per la violazione di diritti fondamentali delle persone migranti ad opera delle politiche securitarie di “protezione” dei confini. Pertanto delegare tale gestione a paesi terzi non vincolati da strumenti di difesa dei diritti umani rende nei fatti possibile arrestare o quantomeno diminuire l’arrivo di migranti con l’utilizzo di qualsiasi mezzo senza tuttavia doversi “sporcare le mani”.

Riconoscere le responsabilità
È ormai ampiamente dimostrato che l’inasprimento dei controlli di confine non frena le persone dall’intraprendere un viaggio migratorio: lo rende semplicemente più pericoloso. I fatti di Melilla ne danno ulteriore prova: centinaia di persone che, pur consapevoli delle possibili reazioni delle forze di sicurezza, si sono comunque lanciate in questo disperato tentativo di valicare la frontiera, con conseguenze letali per molti di loro. Attribuire le responsabilità di questa strage ai trafficanti di esseri umani non è che un maldestro tentativo di distogliere l’attenzione dalle responsabilità giuridiche e politiche di chi ha fatto sì che l’unico modo di raggiungere un paese europeo sia affidarsi alle mani di criminali, oltre a rendersi direttamente o indirettamente colpevoli di esecuzioni di tragedie come quella di Melilla.

La gestione dei flussi migratori è diventata ormai un importante strumento di ricatto per i paesi di origine e transito di persone migranti, in quanto consapevoli che i paesi europei sono disposti a qualsiasi cosa pur di frenare gli arrivi sulle loro sponde. L’accordo tra Spagna e Marocco ne è una perfetta illustrazione: Sánchez ha preferito cedere alle pressioni di Mohamed VI e ribaltare lo storico sostegno spagnolo al diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi piuttosto che rischiare di dover accogliere le persone migranti in arrivo dal Marocco.

È quindi indispensabile un urgente cambio di rotta a livello internazionale – partendo quantomeno da quello europeo – nella gestione dei flussi migratori, perché non possiamo tollerare che stragi come quella di Melilla siano all’ordine del giorno. Il primo passo per fare ciò deve essere una presa di coscienza delle reali responsabilità europee e del ruolo delle politiche di esternalizzazione delle frontiere in queste tragedie, rifiutando una volta per tutte discorsi xenofobi, ipocrisie e banalizzazioni.

Clara Parigi*

Fonti e approfondimenti:

*Laureata in Giurisprudenza italiana e francese all’Università degli Studi di Firenze e all’ Université Paris I Panthéon – Sorbonne a Parigi. Ha proseguito gli studi ottenendo una seconda laurea magistrale in Scienze Internazionali – Diritti Umani con diploma in Migration Studies presso l’Università degli Studi di Torino. Ha svolto la pratica forense concentrandosi sul diritto dell’immigrazione e diritto antidiscriminatorio e sta attualmente lavorando come operatrice legale presso un Centro di Accoglienza Straordinario per richiedenti asilo a Vercelli.

**Immagine tratta da Le Monde