La voce della letteratura italiana contro la tortura

Pubblichiamo di seguito il contributo ricco di spunti di Giulia Onofri, tra le partecipanti al premio di Laurea Acat Italia con la tesi dal titolo “Il tema della tortura in letteratura italiana”

 

La letteratura non è frutto solo della fantasia, ma spesso rappresenta anche uno specchio che riflette le preoccupazioni, i disagi e le contraddizioni del tempo e della società in cui è prodotta, filtrando il riverbero dei pensieri degli uomini che vivono in quella determinata realtà. Appare chiaro, allora, come il grave peso che l’immagine di strazio e di angoscia, a cui la pratica della tortura rimanda, abbia influenzato in modo considerevole, nel corso dei secoli, molti testi della nostra letteratura. Il campo semantico di violenza indescrivibile ha piegato, inoltre, l’immagine della tortura ad accostamenti di significato inusuali e a metafore, spesso ispirate alle pene d’amore, dal sapore distruttivo e sconvolgente nei sensi. 

Bisogna, però, attendere l’Illuminismo per vedere l’esercizio della tortura diventare un tema di urgente sensibilizzazione e di scottante interesse sociale, al punto da costituire il perno su cui si fondano memorabili saggi di alcuni lungimiranti philosophes impegnati, in tutta Europa, a contrastare tali atti di disumanità rivolgendosi ai sovrani e a tutti gli uomini. In tale direzione si muovono gli illuministi Cesare Beccaria, autore del saggio Dei delitti e delle pene, e Pietro Verri che con le sue Osservazioni sulla tortura si unirà alla denuncia contro la brutalità delle pratiche di estorsione prescritte dalla malata superstizione che, spesso, le ha alimentate.

Questi due pensatori impongono il loro primato nell’illuminismo lombardo del XVIII secolo poiché aspirano ad ottenere una risonanza sulla nascente opinione pubblica (in senso moderno), con l’intento di educarla alla totale abnegazione di sevizie fisiche e della pena di morte, e alla loro definitiva abolizione. Nell’opera di Verri che analizza con perizia un crudele e ingiusto processo contro un presunto untore, durante la propagazione della peste nel 1630 a Milano, viene assimilata la tortura ad una vera e propria pratica criminale che trova fondamento da una parte sull’abominevole abuso di forza e di brutalità e, dall’altra, sulla discriminazione verso i poveri e deboli, per lo più innocenti.

 

Per conferire, inoltre, maggiore scientificità e quindi credibilità alla propria disamina, l’autore considera il Codice Teodosiano e Giustinianeo, due capisaldi tra gli ordinamenti legislativi del passato, in cui non è presente nessuna legge che autorizzi un così grave abuso di feroce violenza. Questo stesso processo ebbe una così risonante eco nella coscienza pubblica che venne ripreso, nel secolo successivo, da Manzoni nella sua celebre Storia della colonna infame, in cui però si fa più insistito il richiamo alle responsabilità degli individui.

 

La polemica morale di cui Manzoni è portavoce, infatti, a differenza di quella sollevata da Verri, non è improntata su un’accusa diretta alle istituzioni, alla superstizione del tempo e alle leggi che riconoscevano legalità alla tortura, bensì alla condotta meschina dell’uomo, che non ha saputo dirigere il libero arbitrio verso scelte tollerabili, sensate e dunque, in virtù di questo, non è stato in grado di presiedere coscienziosamente agli enti preposti all’importante compito di amministrare la giustizia. Ciò che emerge e che accomuna tutti questi scrittori impegnati a dissentire dalle gravi ingiustizie sociali del proprio secolo, è il disperato richiamo al senso di umanità che sembra essere stato dimenticato dal genere umano, il quale procede in senso contrario al giusto cammino di civiltà che, invece, dovrebbe percorrere.

 

Il comun denominatore, l’idea cardine attorno a cui ruotano tutte queste pagine intrise di pathos, è la convinzione che dal seme della violenza può nascere e fiorire solo una linfa vitale malata sin nelle radici che non saprà restituire ossigeno all’uomo ma solo aria inquinata. È Beccaria che, dando voce alla Tortura stessa, ne fa decretare esplicitamente la legge che la sostiene e, per denunciarne l’assurda ferocia e la folle irrazionalità che la nutre, attraverso questa accorta prosopopea, deride, con amara ironia, la dissennatezza degli uomini che non si accorgono di agire contro sé stessi: «[…] io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi» (1).

 

Quando si fa del male a qualcuno o lo si priva della vita, nello stesso tempo, si toglie irrimediabilmente qualcosa anche a noi stessi, suoi simili, e si dovrebbe sentire morire dentro un pezzo di noi. Proprio per questo motivo, se crediamo nella veridicità della definizione aristotelica di uomo come ζῷον πολιτικόν (2), non possiamo non condividere il pensiero di Beccaria su cui dovrebbe fondarsi qualsiasi società non solo civile ed evoluta quanto all’esercizio della ragione, ma soprattutto umana giacché composta, appunto, da persone animate da sentimenti. La fondamentale lezione di questa pietra miliare del pensiero illuministico che trova spazio nella letteratura italiana del Settecento, a distanza di secoli, in un’epoca che ormai dovrebbe essere consapevole degli insegnamenti di cui la storia conserva memoria, resa immortale dai suoi profondi segni, risulta, invece, tristemente attuale.

 

Vale la pena, allora, fare appello alla morale di ognuno e richiamare l’attenzione di ogni coscienza, ricordando le parole di questo grande ideologo italiano che ancora oggi, forse senza alcuno stupore, si troverebbe di fronte un mondo di uomini sprovvisti di educazione ad essere ciò che sono, uomini appunto, persone e non bestie inumane: Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, sì nel bene che nel male, ed uno spettacolo troppo atroce per l’umanità non può essere che passeggero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi […].(3)

 

di Giulia Onofri

 

1 C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Rizzoli, Milano, 2010, p. 66.

2 Letteralmente “animale politico”, inteso come essere socievole e per natura comunitario, ovvero destinato a vivere in un consorzio umano che si realizza nella partecipazione alla vita civile e nell’instaurazione di relazioni intersoggettive.

3 C. BECCARIA, p. 84.